Una strada nuova si sta aprendo all’interno del cristianesimo, occorre saperla guardare. È la via dei tanti che sentono restrittiva la collocazione in un unico quadro e preferiscono privilegiare il dialogo intimo con sé stessi, e quindi con Dio, senza condizionamenti né padri spirituali sotto cui stare. È la via di coloro per i quali la propria coscienza è terreno sacro che non si può offendere, invadere, il percorso di coloro per i quali il cristianesimo è via di liberazione ed emancipazione e non di costrizione e sopruso.
Questa via ha trovato in passato e trova ancora oggi tante resistenze, ma insieme diversi precursori, luci che possono dare ispirazione. Fra queste Adriana Zarri, la scrittrice ed eremita scomparsa nel 2010 su cui Mariangela Maraviglia ha da poco fatto uscire un suo saggio – “Semplicemente una che vive”, il Mulino –, un testo che, oltre a portare luce per la prima volta su una figura di donna unica, aiuta a comprendere che la strada della ricerca di sé senza vincoli e costrizioni esiste ed è percorribile anche all’interno della tradizione cristiana. Per questo, a mio avviso, “Semplicemente una che vive. Vita e opere di Adriana Zarri” è un libro imprescindibile, una delle pubblicazioni più importanti dell’anno che va concludendosi.
Chi fu Adriana Zarri? Sappiamo che fu scrittrice, teologa eremita (della sua teologia trinitaria non parlo qui perché sarebbe un capitolo troppo lungo) e che finì i suoi giorni in solitudine in una cascina nel canavese. Sappiamo che collaborava col Manifesto, amica di Pietro Ingrao e di Rossana Rossanda, e che nella sua esistenza seppe prendere spesso posizioni controcorrente. E sappiamo che il suo era una sorta di monachesimo laico, e che l’eremitismo fu la scelta di un abbraccio della natura nella quale vedeva la manifestazione di Dio. La scelta della solitudine non fu per Adriana Zarri una fuga dal mondo: di questo e della vita degli uomini dava continuamente giudizi anche duri e spiazzanti tutti maturati nell’ascolto di sé stessa, un ascolto che sapeva riconoscere la sua voce come unica e irripetibile. La Chiesa istituzionale spesso si arrabbiava per le sue prese di posizione. Ma lei non se ne curava: contava di più la fedeltà alla propria coscienza che il giudizio di vescovi e cardinali.
Un giorno le chiesero: chi sei? Rispose così:
«Lasciamo cadere l’eremitismo, il monachesimo, la cascina, la campagna, perfino la preghiera. Preferisco dire che vivo: mi sembra più semplice e più ricco perché la vita comprende la preghiera, e forse la preghiera comprende la vita ed è vita stessa. E non è necessario ricordarmi; ma, se mai, i termini sono questi: “In una casa c’è una persona che vive”».
Questo volle essere Adriana Zarri, una persona semplicemente che vive, che non necessita di riconoscimenti istituzionali per essere, che non ha bisogno di qualifiche né di padrini. Una che vive. Certo, una che vive all’interno della strada che il cristianesimo ha aperto. Ma quale cristianesimo? Non certo quello del potere, quanto un cristianesimo aperto ai valori essenziali del Vangelo continuamente messi in paragone e dialogo con le esigenze più profonde di sé.
Adriana Zarri per un periodo della sua vita fece parte della Compagnia di San Paolo. Poi ne uscì. La prima motivazione, scrive Maraviglia, fu legata alla teologia «poco allineata» che sentiva di voler fare e al desiderio di non danneggiare la sua istituzione. Questa, avrebbe scritto molti anni dopo, fu «la spinta determinante». Ma, aggiungeva subito, ve ne era una più profonda, il desiderio di non «collocarsi in un quadro speciale».
Disse ancora:
«Ciò che volevo era semplicemente vivere: e, se questa vita a qualcuno diceva qualche cosa, bene: era un fatto suo, che non mi riguardava. Non quindi costruire opere né “fare apostolato” – come a quei tempi ancora si diceva – perché l’apostolato non si fa: si è, essendo la vita di Dio rivissuta tra noi. Ma si vive la vita divina vivendo con pienezza e nudità la vita umana».
Insomma, la strada di Adriana Zarri fu quella dell’abbraccio della propria laicità con libertà di ricerca e di espressione teologica, una libertà inconciliabile con le regole e le responsabilità di una istituzione ecclesiale. In un certo senso, pur nelle differenze delle due figure, la sua strada ricorda quella scelta da Simone Weil che, convertitasi, non volle il battesimo per rimanere sulla soglia della Chiesa. Sulla soglia, libera quindi di ascoltare la voce del suo cuore e dello Spirito che lì, senza condizionamenti, le parlava.
Quella di Adriana Zarri è allora una strada possibile a tutti, una strada mistica nella quale il misticismo non è privilegio di pochi ma possibilità per ognuno, nessuno escluso. Ognuno può ascoltare la sua voce sempre e comunque. Ognuno può amare sé stesso e, dunque, Dio. Scrisse il filosofo francese Gustave Thibone, amico di Simone Weil: «Domani si eleverà forse un nuovo tipo di santità in cui gli amanti di Dio saranno uomini fino in fondo».
Adriana Zarri incarnò la profezia che fu del teologo Karl Rahner, da lei amato e seguito, per il quale il cristianesimo del futuro o sarà mistico o non sarà. Dove per mistico non si intende altro che ascolto della voce di Dio nelle praterie del proprio intimo. Dentro di me trovo Dio e non al di fuori. L’ascolto di sé la portò a riconoscere la positività della sua esistenza, la sua unicità e a rigettare l’atteggiamento pessimistico e mortificante dell’etica tradizionale. Aveva una lettura positiva della realtà, non più inficiata dal peccato originale, ma riscattata dalla possibilità fatta propria da Gesù Cristo e possibile a ogni uomo di ristabilire il primitivo piano di Dio per il quale ogni uomo è buono e unico.
È una strada anche di solitudine, certo. Si è soli con sé stessi anzitutto, ma insieme ci si trova in comunione con chi è alla ricerca di sé e lì trova Dio. È la strada della liberazione dai falsi condizionamenti esterni, dalle violenze di un Dio onnipotente e dei suoi figli despoti, in favore della continua crescita personale e dei fratelli accanto e insieme a sé.